DA UNA LETTERA non spedita(anno 2011) di ADRIANO SOFRI ad ORIANA FALLACI/a cura di Luigi Civolani Blogger Attento.

PAG 1/18- LUIGI CIVOLANI BLOGGER ATTENTO…

DA UNA LETTERA NON SPEDITA (anno 2011) DI ADRIANO SOFRI AD ORIANA FALLACI :

Lettera condivisa ed inserita nella propria fonte notizie da Provocazioni Blog no profit e trasmessa by altervista.org a cura di Luigi Civolani -/scritta e diffusa da Adriano Sofri (dal -e nel suo archivio e note della memoria).

LUIGI CIVOLANI PREMESSA:

La storia per sua stessa definizione parte sempre da lontano, trovo assolutamente condivisibile la decisione di non spedirla nel 2011 all’egocentrica Fallaci, personalita’ che fu sempre irrimediabilmente serrata nella sua superbia e nelle sue paure …e che oggi chi sa cosa direbbe o rifiuterebbe di cio’ che scrisse. grazie per questa bellissima, lucidissima ed umanissima lettera!

QUALCUNO ora potra’ dire , Si la lettera appare Umana ma lui e’ UN DISUMANO ….Fu e lo sara’ solo per questi eventuali dissidenti di parti avverse conosciute “per altri fatti  DISUMANI”,e quindi sara’ meglio non contrappore piu’ comparazioni e saldi di fine stagione con un passato su cui è meglio stendere su tutti un velo pietoso.

Pero’ da critico neutro aggiungo che SOFRI per tanti altri  MAI E’STATO  DISUMANO,soprattutto PER UNA NOTEVOLE platea , cosi’ fu ieri e cosi’ e’ ancor oggi , appartenenti di una OPINIONE PUBBLICA MONDIALE.

EGLI SI E’SEMPRE PROCLAMATO INNOCENTE, NE ‘ ESECUTORE E NE ‘ MANDANTE del delitto Calabresi;si dichiaro’ solo un corresponsabile morale PER LE LIBERE opinioni politiche che esprimeva in quanto a quel tempo  Direttore del suo -famoso Quotidiano di estrema sinistra di cui era un militante :Lotta Continua .

EGLI HA PAGATO le sue PENE  per una condanna eccessiva  a 23 anni poi ridotta a 15 anni , Ma E’ persona super – colta, saggista,giornalista,scrittore di particolare intellettualita ,sensibilita’ e talento raro .

NON ENTRO NELLA TRAGEDIA DI QUELL’EPOCA PER RISPETTO DI TUTTI MA, FORSE TALUNI per COMODITA’ e DIVERGENZA IDEOLOGICA NON RICORDANO L’EVERSIONE E LA MERDA NERA  DI STATO LEGALIZZATA CHE IN QUELL’EPOCA ERA DENTRO LO STATO,UGUALMENTE  CORRESPONSABILE MORALMENTE E CHE ANCOR OGGI SI INFILTRA O SI NASCONDE SOTTO ALTRE SPOGLIE OFFENDENDO QUEI VERI SERVITORI DELLO STATO DEGNI DI TUTTO IL NOSTRO AFFETTO, APPOGGIO  E CONSIDERAZIONE.

NULLA ACCADE PER CASO QUANDO SI FOMENTA ODIO ED INTOLLERANZA , VIOLAZIONE DEI DIRITTI, E TRASFORMANDO I BUONI IN CATTIVI FACENDO APPARIRE I CATTIVI COME DEI BUONI …

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE IN QUELL’ EPOCA NE SA QUALCOSA …

(LUIGI CIVOLANI) .

Da-di Adriano Sofri : La sua lettera mai spedita nel 2011 :Pag 18

Adriano Sofri

Oriana Fallaci

Pag 1:

Oggi sono in molti a dirsi che Oriana Fallaci aveva ragione, a tal punto da potersi permettere di avere platealmente torto. Il problema è: benché avesse molte ragioni, aveva torto? O: benché avesse molti torti, aveva ragione?

Nel novembre 2001 le scrissi una lettera aperta. Poi non la pubblicai, anzi non la finii nemmeno. Forse perché non ne ero soddisfatto, o perché mi dispiaceva litigare con lei. Era stata solidale con me, che ero in galera.

Mi aveva raccontato dei suoi sentimenti quando in galera era suo padre. Mi mandava dediche affettuose coi suoi libri. Nell’agosto 1980 eravamo stati insieme in un viaggio in Cina con il presidente Sandro Pertini, non mi era piaciuta. Faceva scenate alle hostess e sfuriate a sua sorella, se ne stava appartata come una regina che un incidente di carrozza avesse costretto a viaggiare con i domestici.

Un po’era così, lei aveva un appuntamento fissato per una intervista con Deng Xiaoping, che divenne naturalmente, e giustamente, celebre. Deng le disse frasi come: “La gente è stufa dei movimenti di massa…”: favoloso, per il capo del comunismo mondiale. Io, come altri della comitiva, fui introdotto da Deng per un breve saluto, e me ne portai indietro pressoché solo il ricordo della grossa sputacchiera accanto alla sua poltrona. Ma io non ero un giornalista, non lo sono mai stato, ero un imbucato, grazie a Pertini.

Insomma, cominciai a scrivere questa lettera aperta a Oriana Fallaci dopo aver letto le sue pagine sul Corriere, e il loro svolgimento in libro, “La rabbia e l’orgoglio” . Poi me ne dimenticai. Ora la copio, così com’è. Per gli eventuali lettori, dò per scontata la conoscenza del testo di Fallaci, scritto a ridosso dell’11 settembre di Manhattan.

Aggiungo solo, tra parentesi e in corsivo, pochi indispensabili chiarimenti. Rinuncio a commentare a distanza di 14 anni quello che scrisse Oriana Fallaci e quello che scrissi io, col senno di poi –ammesso che il poi abbia un senno.

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Gentile Oriana Fallaci, ho visto che lei dichiara di non leggere le obiezioni altrui. Gliene rivolgerò qualcuna anch’io, almeno a me servirà. Rinuncio alla più inevitabile, che lei abbia esagerato. Lei voleva esagerare, e se si potesse esagerare nell’esagerare, lei l’avrebbe fatto. Inoltre lei si fa forte di alcune prerogative robuste: per esempio lei è donna, è fiorentina, e di tempra azionista. Dunque bisogna prendere sul serio la sua sfuriata.

Ho bensì un piccolo rammarico personale, perché lei se la prende coi ciuchi, per l’abuso che ne hanno fatto i politicanti dell’Asinello /era il simbolo dei Democratici di Prodi e Parisi nel 1999/. Coi ciuchi, che sono quasi finiti, pochi superstiti nelle isole, a rimpiangere gli ergastolani.

Coi ciuchi, lei che dovrebbe ricordarsi, se non di Luciano e di Apuleio, almeno di Pinocchio e della sua buccia asinina. Nell’Afghanistan che guardiamo ogni giorno in televisione, se non ci fossero quelle donne imprigionate e bastonate e i loro bambini, l’immagine più emozionante sono i somari: carichi di donne e bambini, come alla fuga in Egitto, o messi a tirare carretti straripanti, e bastonati strada facendo. “Animale uso a ragliare, ch’io sappia, non certo a simboleggiare l’intelligenza”! Ma come le è venuto in mente, di maramaldeggiare con i ciuchi.

Ha voluto ramazzare quello che le capitava fra i piedi. “I buonisti”, scrive, che “celebrano congressi all’ombra d’un motto anglo-americano. Un motto che sembra la reclame d’un detersivo: ‘I care’.” Se la prenda pure con Veltroni, se vuole –dopotutto, a suo modo voleva fare l’americano- evochi pure il suo falegname comunista che confonde l’I care con Icaro, cui si sciolsero le ali. Lei però la sa la differenza fra Icaro e I care.

Senta, Icaro mi fa tornare in mente il volo di Lauro De Bosis, che dovrebbe esserle carissimo. Era nato nel 1901 e aveva poco più di vent’anni quando fu invitato a New York e avvertì gli americani dell’infamia della dittatura fascista: proprio come fece poi il Gaetano Salvemini cui lei si ispira, e che fu fra gli amici di Lauro.

Nel 1926 insegnò a Harvard e nel 1927 scrisse il poema intitolato così: “Icaro”. I suoi famigliari e collaboratori furono arrestati mentre lui tornava dall’Italia in America. Si fermò a Parigi, faceva il portiere d’albergo, traduceva, studiava, preparava antologie di poeti, imparava a guidare l’aereo.

Nel 1931 una sottoscrizione gli consentì di acquistare un piccolo velivolo e di caricarlo di volantini.

Il 3 ottobre decollò da Marsiglia, arrivò sopra Roma, scese a una quota bassissima, versò su piazza Venezia e sul resto del centro 400 mila manifestini. Aveva preparato tre testi diversi. In uno si leggeva fra l’altro: “Chiunque tu sia, tu certo imprechi contro il fascismo e ne senti tutta la servile vergogna.Ma anche tu ne sei responsabile con la tua inerzia.Non cercarti un’illusoria giustificazione col dirti che non c’è nulla da fare. Non è vero. Tutti gli uomini di coraggio e d’onore lavorano in silenzio per preparare un’Italia libera”.

De Bosis sapeva che il carburante non gli sarebbe bastato per il ritorno. Precipitò in mare vicino all’isola d’Elba, Icaro di se stesso. La notte prima aveva scritto una “Storia della mia morte”. Non era invasato di morte, come gli assassini-suicidi delle Torri. Pensava semplicemente che bisognasse. “Mentre, durante il Risorgimento, i giovani pronti a dar la vita si contavano a migliaia, oggi ce ne sono assai pochi. Bisogna morire. Spero che, dopo me, molti altri seguiranno, e riusciranno infine a scuotere l’opinione”.

La sua compagna, la famosa attrice Ruth Draper, intitolò a lui una donazione per una cattedra di italianistica a Harvard. Quel Gaetano Salvemini vi tenne le sue famose lezioni sulle origini del fascismo.

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Vede dove ci porta il fantastico equivoco del suo falegname fra I care e Icaro. Magari averlo, un congresso ex-comunista all’insegna di Icaro, come il volo di Lauro De Bosis.

Lei la sa la differenza fra Icaro e I care, anzi lei sa di più, e quel di più le poteva sconsigliare la battutella sul detersivo.

Lei lo sa che quel motto stava scritto su un muro della scuola di Barbiana, per volere del curato don Milani, anche lui in esilio e anche lui capace di prediche agli italiani, cui sua sorella, Neera Fallaci, si dedicò con tanto fervore /Neera aveva scritto “Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani”/.

Lei quel motto doveva maneggiarlo con più cura (handle with care, no?), una volta messo in moto il suo camion della monnezza. Anche perché la ragione che aveva spinto don Lorenzo a scegliere l’ “I care” mentre insegnava l’inglese il tedesco il francese e lo spagnolo (e l’arabo) ai suoi ragazzi, era di rovesciare il motto dei fascisti, che rischia di essere ogni volta di nuovo il motto degli italiani: Me ne frego!

“Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande ‘I care’. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E’ il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’.”(Lettera a una professoressa).

Guardi che a don Milani lei deve molto. Lui è fra quelli che le hanno preparato la strada. Non tanto per quello che diceva, ma per com’era, e come lo diceva. Senta come gli scriveva il suo vescovo, il cardinale Florit, mentre il priore era già in un letto d’ospedale col suo cancro: “Ora la tua natura, il tuo modo di parlare, di scrivere, di essere, ti porta agli scontri verbali, agli estremi, alle espressioni-limite”.

Gli rinfacciava di esagerare, vede. Don Milani le ha preparato la strada. Gliel’hanno preparata in parecchi. Se no, la sua sarebbe la sfuriata di una che se ne stava chiusa in casa, ed è uscita di testa ed è venuta in vestaglia sul pianerottolo a inveire contro i vicini e i lontani.

Pensi alla questione della superbia. “Poi c’è la storia della superbia. Sai che ho deciso dopo matura riflessione che l’umiltà è la rovina della classe operaia e peggio ancora contadina e montanara”. (Lettera…).

Se lei non fosse una donna, la sua sfuriata sarebbe stata inconcepibile. Guardi che non è un lapsus: lo so che “concepire” è un verbo che ha un pregnante genere femminile, e che lei ha scritto la Lettera a un bambino mai nato, e che lei parla con esattezza della lunga gravidanza del suo prossimo libro.

Le dirò un’impressione, senza paura di offenderla, perché anzi ho l’intenzione opposta. I ragazzini maschi possono aver voglia di fare i ganzi con una puttana di strada, e vanno in banda a gridarle frizzi e parolacce: la donna rovescia loro addosso una gragnuola tale di insulti inauditi e male parole terrificanti e zoccolate e sassate da farli scappare a gambe levate, e ancora scappano.

Niente di simile saprebbe fare un uomo. Così mi guarderei dal venire a sfottere lei, anche solo per iscritto.
Soprattutto, se non fosse donna, lei non avrebbe il coraggio –ce ne vuole!- di trattare così sprezzantemente le donne. Non direbbe che vogliono scopare con Bin Laden. (Però, aspetti. Ho appena letto su uno spigliato mensile italiano che si chiama Max l’intervista con la ragazza della copertina – “L’ultima figlia dei fiori” secondo il titolo. L’intervistatore le chiede: “Fisicamente ti piace di più Bush o bin Laden?” Risposta: “Sicuramente bin Laden.

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Mi piacciono gli uomini con barba e carnagione scura… Bush ha una faccia da deficiente”. Lo cito per darle un po’ ragione, e perché sono colpito dalle peripezie degli accoppiamenti. Non che mi augurassi che la ragazza preferisse –“fisicamente”- Bush. Ma insomma: uomini maturi e pensosi erano già arrivati a decretarsi “Né con Bush né con bin Laden”. Poteva bastare. Ci sono domande cui le belle ragazze intervistate potrebbero fare a meno di rispondere).

Dunque lei non le scriverebbe così grosse se non fosse donna. Naturalmente, non tutte le donne le sparano così grosse: lei è un caso singolare. Per esempio, Dacia Maraini le ha risposto in modo molto affabile e quasi ingenuo. “Nei grattacieli, lo sai, sono morti 400 musulmani…

I primi a fare le spese del fanatismo religioso sono stati proprio loro, i figli di Allah: le tante ragazze sgozzate in Algeria per la semplice ragione che frequentavano una scuola; le tante donne che in Afghanistan sono state lapidate perché scoperte a camminare con un burqa non abbastanza lungo o non abbastanza fitto davanti agli occhi”.

Infatti lei sembra trascurare il dettaglio che anche le donne sono musulmane, quelle bastonate in Afghanistan e sgozzate in Algeria, e quelle che in Afghanistan e in Algeria audacemente si ribellano, come Khalida Messaoudi.

Dacia Maraini è mite però testarda. Ma si capisce che fra chi parla affabilmente e ingenuamente, e chi fa una sfuriata, non c’è partita. Soprattutto se l’affabile si affida all’antropologia: “Non c’è bisogno di avere studiato antropologia (un’arte squisitamente europea, figlia di una cultura illuminista, attenta verso l’altro, il diverso), per sapere che ogni confronto fra culture è insensato”. Ci tornerò, su questa storia dell’antropologia. Anzi, sarà il mio grimaldello.

Penso anche che lei, Oriana, non le sparerebbe così grosse se non fosse fiorentina e comunque toscana. (Però anche Dacia lo è abbastanza. Anche don Lorenzo).

Quando ho finito di leggere il Corriere –tutti quegli umori e liquori, sputi e piscio e calci nelle palle- ho pensato che un siciliano non avrebbe potuto usare quella lingua. Forse sbaglio perché non conosco abbastanza il siciliano, ma mi sembra che in quella magnifica regione, capace di efferatezze mostruose e scrupolose, la lingua osservi una cerimoniosa cortesia. Anzi penso che l’estremismo e la brutalità di certi atti spieghi la cerimoniosità della lingua e viceversa.

Così, penso che la stremità verbale del toscano stia in proporzione inversa a una moderazione degli atti (relativa certo, ché una violenza becera è anche toscana).

Si sa che ci sono paesi che per bestemmiare prendono in prestito lingue straniere, come faceva la Jugoslavia con l’italiano, e non è che la Jugoslavia difettasse di una ferocia pratica.

A parte le proverbiali bestemmie, mi chiedo quante altre lingue conoscano quelle espressioni toscane: “In culo al mondo” e “In culo a Dio” –che in fondo, con tutto il rispetto, hanno molto a che fare con la sua invettiva. C’è bensì un gran romanzo di António Lobo Antunes che si intitola proprio così, “In culo al mondo”, ma in portoghese era “Os Cus de Judas” (1983) e l’efficace titolo einaudiano dev’essere farina di Antonio Tabucchi, cioè di un altro toscano, appunto.

La Toscana –soprattutto Siena e Firenze, direi- ha la palma dell’improperio e del vituperio nella nostra letteratura. Cecco Angiolieri, “a tutti mozzarei lo capo a tondo”, la tenzone tra Dante e Forese, “Bicci novel, figliuol di non so cui”, ma soprattutto la Commedia. Stare in esilio e giudicare e dannare e maledire la città amata e perduta e vendicarsi del mondo: questo è Dante, prima di lei a Manhattan, e –non dirò preparandole la strada, ma certo coprendole le spalle.

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C’è una tradizione, c’è una grandiosità che trattiene dalla liquidazione facile: una che insulta Firenze in nome della sua Firenze, che grida sul puzzo e sulle strie di piscio sui marmi del Battistero, è una che si prende per Dante. Posizione rischiosa: c’è una mania di grandezza, è vero, ma è vero anche che il primo a prendersi per Dante fu Dante. Perfino la sua megalomania madornale, di lei Oriana, la prima persona singolare che si annette ogni evento mondiale come per fatto personale, risale a Dante. Al Battistero, appunto, da lui chiamato senz’altro il mio bel San Giovanni.

Donna, fiorentina, e, ultimo ascendente, azionista. Del Partito d’Azione, intendo. Me l’ha ricordato, se non l’avesse già fatto lei, Giuliano Ferrara, in una puntata televisiva dedicata al suo testo.

Non so chi, ad altro riguardo, aveva menzionato l’azionismo, e Giuliano, che lo tiene per sua bestia nera, lo liquidò come estinto, salvo qualche superstite liminare in Torino. Lei invece lo rivendica, l’azionismo, quello di suo padre e il suo proprio, e i suoi antenati risorgimentali: non ne rivendica una politica ma un temperamento e un’educazione, e uno stato d’animo.

La tempra: quell’ “avere le palle” che lei ha preso –dico senza ironia- da suo padre. E lo stato d’animo: quella solitudine risentita (ed esiliata, anche solo nel Chianti) che la diaspora degli azionisti prova di fronte alla corruzione della politica e al gregarismo delle “masse”.

Mi interessa, oltre che per una simpatia azionista che provo anch’io, perché l’intransigenza aristocratica e il coraggio personale che furono degli azionisti si sono rinsecchiti non raramente, dopo la stagione del fuoco, in una delusione autoritaria.

Non so, Randolfo Pacciardi, per dire del più vituperato e addirittura sospetto di golpismo, o il Leo Valiani fautore catonista del fermo di polizia, o, citato anche da lei, l’Ugo La Malfa che invocò alla Camera la pena di morte la mattina del rapimento di Moro e dell’uccisione degli uomini di scorta.

Dunque ascriverò il suo “delenda Carthago” dell’islam anche a questa paternità azionista.

Non per filologia, né per toglierle quel che è solo suo, ma per un problema grave: che la ragionevolezza, e la razionalità, politica e civile sono ora destinate a passare per moderazione e per mezza misura, a rinunciare alla passione (o a imitarla, che è peggio). E’ questa in fondo la questione del buonismo, che altrimenti sarebbe inattaccabile, dato che la bontà è un dono splendido.

Il buonismo sa di mezza misura, di dissimulazione e di anestesia.

Non sta da una parte –non più, o perché era la parte sbagliata, o perché non si ricorda più che parte era, o perché non ne trova un’altra. Riconosce il problema che l’altro ha posto, ma lo riduce e lo smussa. Nei casi migliori, cerca un equilibrio. Nei più frequenti rincorre l’altro, a volte lo sorpassa per zelo.

Ora in Italia c’è un moderatismo estremista, cui non si riesce a trovare un nome: populismo, in genere, espressione grossista. Per questo lei se li mangia in pinzimonio. Lei non è Borghezio. Però lei sta a Borghezio come un bombardamento d’alta quota sta alle truppe di terra. Lei ha le bombe intelligenti con parecchio danno collaterale; gli altri vengono avanti sgozzando. Lei stessa però è persona dagli effetti facili. Lei scende dall’auto col cric in mano.

Senta, lei loda l’America meticcia, che prende tutti e li tramuta in patrioti americani. Il suo vasto territorio e la sua storia breve glielo consentono, dice. Ma che faremo dell’Italia? Corsi di recupero sull’Inno di Mameli, per soli calciatori italiani e africani? Ormai la maggioranza dei miei coinquilini /in carcere/ sono stranieri, maghrebini i più. Giovanissimi quasi tutti.

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Sono arrivati da clandestini, gli piaceva l’Europa, la vita europea.

Una volta arrivati hanno trovato la droga, da spacciare e da consumare, le due cose insieme. Lei lo sa che lo spaccio è fra i lavori degradati che gli italiani non vogliono fare più. Vengono in galera per questo, i ragazzi maghrebini; tranne qualche algerino più all’antica, che fa il borseggiatore.

L’islam per loro è una certezza assente, rinviata a un’età più matura. Non si sognerebbero nemmeno di non credere in Allah, o di bestemmiarlo; ma non si sognano nemmeno di pregarlo le cinque volte, tranne pochissimi.

Benché l’Italia che sognarono sia ora la galera, non si rassegnano facilmente a non sognarla più; e a fratelli e sorelle scrivono che abitano in Italia –non è una bugia. Fanno il tifo per le squadre italiane, a volte già prima di arrivare: per l’Inter, la Juventus, il Milan, la Fiorentina.

Lo fanno anche più degli italiani. Il tifo calcistico è la più facile, e forse l’unica accoglienza che l’Italia offre loro. Sono extracomunitari e irregolari, ma almeno interisti e juventini. Perfino al campionato del mondo oscillano fra la loro nazionale, se c’è, e quella italiana.

Sono pronti a quel patriottismo dei nuovi arrivati che l’America seppe promuovere così sagacemente.

Se ci fosse una chiamata alle armi, si arruolerebbero per primi e correrebbero alle frontiere. Si potrebbe prendersi qualche cura di loro, non per bontà (non è facile esser buoni, succede a pochi) ma perché in fondo sono spesso il fiore della gioventù dei loro paesi, e ci farebbero comodo. Per fare i lavori che noi non vogliamo più (non solo lo spaccio) e anche per fare il nostro gioco presso il mondo nemico. Perché non so se ho capito che cosa lei pensa di fare con gli stranieri che vengono da noi. Cioè, non può pensare davvero che non vengano affatto.

Allora possono succedere tre cose, in sostanza.

Che una maggioranza fra loro venga, si trovi un suo posto, si porti la sua famiglia, si tenga i suoi costumi, e viva pacificamente fra noi, senza pretendere esoneri dalle nostre leggi, senza che noi ci illudiamo troppo di assimilarli alla nostra cultura.

Che una minoranza fra loro si radichi fa noi, sia aperta e curiosa della nostra cultura, ne apprezzi le cose migliori, e se ne faccia ambasciatrice a casa sua: e quei ragazzi coi quali vivo qui dentro sarebbero spesso candidati idonei a questo proposito.

Che un’altra minoranza viva fra noi coltivando un ripudio e un odio per il nostro modo di vita, e si faccia avanguardia militante della guerra islamista contro la nostra parte di mondo.

In generale, noi non ci mostriamo interessati a questi possibili esiti.

I nostri comportamenti “spontanei” congiurano contro di noi. Con le Torri gemelle, l’11 settembre ha fatto precipitare le cose dal lato dell’inimicizia e del rancore. Dalla parte nostra e dalla loro.

Lei che cosa pensa di fare ora?

Li vidi anch’io i senegalesi che l’hanno fatta infuriare. /Questa era una mia svista: Fallaci aveva scritto di musulmani somali. Al cui tempo, estate 2000, ero in carcere. La tenda dei senegalesi in piazza Duomo che io ricordavo era stata collocata anni prima, col consenso del cardinale Piovanelli/. Infatti abitavo anch’io a Firenze, anzi nel contado, vicino a un posto consacrato all’esilio, perché ci andò a dorso di mulo, cacciato dalla sua città, Niccolò Machiavelli, e là giocava a trictrac e scriveva il Principe e i Discorsi.

Lei lo conosce bene, si chiama Sant’Andrea in Percussina, io ci andavo a piedi coi cani attraverso il bosco. Giorni fa l’ho rivisto in televisione, quel posto, perché era tornata in auge la storiaccia del Mostro detto prima di Scandicci, poi di Firenze, e che proprio nella pineta di fronte a casa mia aveva trucidato una coppia di turisti francesi. Roba locale, il Mostro, di chiunque si trattasse. Nostrana.

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Dunque, i senegalesi: li avevo già visti tante volte vendere la loro mercanzia sul Ponte Vecchio, infagottarla e squagliarsela all’avvistamento di vigili o poliziotti, tornare dopo dieci minuti, e così via chissà quante volte al giorno.

Anch’io non andavo pazzo della chincaglieria sciorinata sul Ponte Vecchio, e con i venditori non mi era capitato di parlare. Li avevo solo visti, grandi e belli come sono, ma muti, salvi i gesti di allarme e di furbizia, e quell’aria di selvaggina cacciata e ripopolata.

Poi li rividi alla tenda davanti al Vescovado, quella che suscitò la sua furia, non più sbollita.

Non avevano mercanzia, ora, ma discorsi e volantini, gli strumenti di chi si accampa in centro per farsi sentire. Si passavano un megafono e interpellavano le persone, che lì arrivano da tutto il mondo: e parlavano, in francese, in inglese, in italiano, in spagnolo. Stetti a sentirli, più che per quello che rivendicavano, per tutte quelle lingue europee che padroneggiavano a meraviglia. Forse me ne lasciai impressionare troppo, e non vidi quello che vide lei, il Battistero usato come latrina e la piazza mutata in monnezzaio.

Ci sono pregiudizi che rendono ciechi, e altri che aguzzano troppo la vista. Intendiamoci: ci tengo anch’io a Firenze. Anche qui dentro, dopo cinque anni di clausura e una breve pausa, sfoglio ogni giorno le pagine fiorentine di Repubblica e tengo il conto delle cose che non vedrò più, ammesso che ne veda più qualcuna. L’ultima è la Libreria Seeber di via Tornabuoni –la chiamo ancora così. Ultima di una serie desolata di chiusure, e i senegalesi non c’entrano. Lo scontro di civiltà, in un certo senso, sì. Firenze è la capitale mondiale della civiltà della scarpa.

Naturalmente lei ha ragione quando maledice le meticolose canaglie che hanno annunciato ed eseguito la pena capitale per i Buddha di Bamyan, e ha ragione quando intima di metter giù le mani dall’arte. E quando sente minacciata la “sua” (cioè la “mia”) Torre di Pisa, e il campanile di Giotto, eccetera.

Le racconterò una cosa. Poco fa, in una tarda notte di novembre, ero sveglio –dormo poco, ho il sonno leggero e il carcere è orrendamente rumoroso e indiscreto. Ero sveglio e ho sentito un’esplosione fortissima. Era una bomba, non poteva essere che una bomba. Mi intendo un po’ di esplosioni. Ho passato anni sarajevesi di notti bombardate.

Dunque sono restato col fiato sospeso ad aspettare se venissero altri scoppi. Poi ho chiamato l’agente di guardia –piano, per non svegliare gli altri, che il sonno ce l’avevano pesante. Aveva una faccia assonnata. Non ho sentito niente, mi ha detto. Mi guardava dubbiosamente. Si capisce che pensava: “Te lo sei sognato”.

Era un agente gentile, e non l’ha detto. “Be’, buonanotte”, ha detto.

Non mi sono più addormentato. Il fatto è che non potevo fare a meno di arrovellarmi: “Avranno fatto saltare la Torre di Pisa?” Ora io sarò diventato troppo apprensivo, però c’era stato l’11 settembre e le Torri gemelle e il mondo va così, che uno sente un boato e sta in pensiero per la sua Torre storta e bellissima.

La mattina dopo ho chiesto a tutti i detenuti e gli agenti e chiunque altri. Nessuno aveva sentito niente. Mi guardavano dubbiosamente. “Te lo sei sognato”, mi hanno detto. Sono convinti che io mi lamenti di non dormire mai, ma che in realtà dorma come un sasso.

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Ho cominciato a dubitare io stesso.

Ci sono sogni che ci sembrano veri, specialmente quelli cattivi, anche dopo che ci siamo svegliati. Alla Torre di Pisa, comunque, non era successo niente. Meno male.

E’ passato un altro giorno ed è arrivato il Tirreno con un grosso titolo sulla rapina di qualche centinaio di milioni eseguita a tarda notte, in due minuti, alla cassaforte di un ipermercato pisano, nella periferia vicina al carcere. I rapinatori avevano riempito di aria compressa il caveau della cassaforte, poi l’avevano fatto esplodere.

“Il boato si è sentito in tutta la città”, diceva il giornale. In carcere no. Il fatto è che i detenuti sono per lo più giovani, e per lo più rimpinzati di sedativi, e non si svegliano neanche coi bombardamenti. Anche gli agenti, però.

Lei ha ragione, credo, anche quando assegna all’islam –benché all’ingrosso- un odio peculiare per la memoria delle altre culture e i loro monumenti. E’, con un tono meno bellicoso del suo, il centro dell’opera di V.S.Naipaul. Naipaul, premio Nobel per la letteratura, nato a Trinidad da genitori indiani e naturalizzato britannico, pubblicò nel 1981 un libro di viaggio in Iran, Pakistan, Malaysia e Indonesia, “Among the Believers: An Islamic Journey” (in italiano “Tra i credenti.

Un viaggio nell’islam”). Ne pubblicò un altro nel 1998 che raccontava il ritorno in quei paesi, “Beyond Belief: Islamic Excursions among the Converted Peoples” (“Fedeli a oltranza: un viaggio tra i popoli convertiti all’islam”).

E’ questo, l’ostilità alle memorie e i monumenti delle altre culture, anche il centro di alcune pagine finali e difficili dei “Tristi tropici” di Claude Lévi-Strauss (1955), che hanno un tono assai diverso.

Prima di citarle però vorrei ricordare a lei la distruzione dello Stari Most, il Ponte Vecchio di Mostar.

Il 9 novembre 1993. Però scusi: lei scrive che non le risulta “che quei maestri di civiltà /mussulmani, con due s come lo scrive lei/ abbiano mai costruito un ponte”. Beh, solo fra quelli che ho visto là vicino c’è il ponte sulla Drina di Višegrad, e il ponte di Trebinje…

Il ponte di Mostar, dunque.

Lei sottolinea che i demolitori dei Buddha di Bamyan “non hanno commesso lo scempio in un impeto di follia, in un improvviso e temporaneo attacco di demenza”. Be’, distruzione è parola benigna per quello che successe davvero a Mostar. Lei avrà in mente il video amatoriale che registrò l’impresa.

Un’artiglieria erzegovese (croata, cattolica) agli ordini di un sedicente comandante, Slobodan Praljak, battè il ponte già ferito fino a farlo stramazzare e precipitare nella verde Neretva. Una metodica macellazione. Perché la città si era divisa in due, cattolici di qua e musulmani di là (slavi gli uni e gli altri, del resto, ma l’avevano dimenticato). Il ponte, most, dal quale la città prende il nome, ne era il simbolo mirabile. L’arco in cielo progettato nel 1566 dall’architetto di Solimano il Magnifico, Hajrudin.

Dei farabutti erzegovesi ubriachi non bastano certo a trascinare a fondo il cristianesimo o il cattolicesimo, il quale ha serbato il titolo di pontifex, costruttore di ponti, al suo capo supremo. Però è bene ricordarla questa distruzione a parti invertite.

Anche perché sono singolarmente inclini a dimenticarla anche i nemici delle cosiddette ingerenze umanitarie. Molti dei quali diedero prova di una straordinaria indulgenza nei confronti del nazional-comunismo di Milošević e dei suoi sgherri etnici, e di una incaponita avversione al soccorso internazionale nei confronti della popolazione bosniaca.

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Il soccorso non avvenne: avvenne il contrario, come nel caso dell’oscena complicità degli olandesi delle Nazioni Unite allo sterminio di Srebrenica.

Lo invocò, quell’intervento armato, perfino il Papa, e quando finalmente venne, per la decisione americana e con le armi della Nato, mise termine nel giro di giorni a una prepotenza assassina protratta per anni, e nemmeno allora fu ringraziato. Eppure si era trattato di un impiego della forza “imperiale” (in realtà vergognosamente tardivo) a difesa di una gente soprattutto islamica, e in una terra intrisa di sangue ma non di petrolio.

Il petrolio, ben più dell’altrui sangue versato, commuove gli interventi imperiali, ma quando non avviene così, è grottesco che se ne indigni il pacifismo. Che, in nome della pace, avrebbe dovuto per primo invocare l’impiego di una forza legittima a difesa delle persone e del diritto.

Risale ad allora, alla Sarajevo del 1992 e seguenti, la nuova parola a designare gli odiatori e assassini di città, “urbicidio”, che avrebbe fatto tanta strada, fino all’11 settembre scorso, della sua Manhattan. In nome dello stesso amore per una pace nel diritto si sarebbe dovuto rivendicare per primi l’uso di una forza legittima nell’Afghanistan delle donne recluse e bastonate e delle barbe obbligatorie, quando la “comunità internazionale” ignorava quella barbarie, se non era pronta a sostenerla e a commerciare in oppio oggi e petrolio domani.

Nel giugno 1979 ero andato in Polonia, per il primo formidabile ritorno di Karol Wojtyla da papa. Tornando mi fermai a Vienna e mi procurai un biglietto per l’Opera. In onore dell’incontro, il primo, fra il presidente americano Jimmy Carter e il presidente sovietico Leonid Brezhnev vi si rappresentava Il ratto del serraglio, con la direzione del leggendario Karl Böhm.

Brezhnev aveva 72 anni ed era al lumicino (durò comunque altri tre anni). Le cronache infierirono sulla sua ebetudine. Lo vidi entrare nel palco imperiale: era mummificato, e guardava verso la parete del palco. I suoi lo voltarono verso la scena come avrebbero fatto con un manichino. Quanto a Mozart, Brezhnev era sordo.

La scena si ripeté alla fine del primo atto, poi i due granduomini lasciarono: Brezhnev non era semovente, il giorno dopo doveva firmare il Salt II, e fra pochi mesi avrebbe ordinato l’invasione dell’Afghanistan.

Gli applausi erano stati educati per i due ospiti, furono scroscianti per l’opera. Böhm, che di anni ne aveva 85, fu richiamato non so quante volte, e sembrò anche lui un po’ traballante. Ma era allegro e spiritoso, si inchinava al pubblico aggrappandosi al sipario calato, e quasi volteggiava. Era stato nazista. L’anno dopo morì.

Lei racconta di essere stata così inorridita dai barbuti afghani che a ogni colpo di mortaio berciavano Allah-akbar da esser grata ai sovietici che avevano invaso l’Afghanistan. “I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio”.

Mentre gli americani, “rincretiniti dalla paura dell’Unione Sovietica”, addestravano i barbuti e con loro Bin Laden. I quali ora sono arrivati a New York, e “New York siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi… ed anche noi russi che, coi mussulmani della Cecenia, a Mosca, ci siamo beccati e continuiamo a beccarci la nostra porzione di stragi”.

Vorrei mostrarle la faccenda dal lato da cui capitò a me di guardarla. Sull’invasione sovietica del 1979 non ebbi la sua opinione, e francamente mi sembra che lei contragga il lungo intervallo fra quella stagione e l’11 settembre 2001.

10/18

Per fare un solo esempio, che però non è un dettaglio, e riguarda anzi una mutazione etologica orrenda del genere umano, nella guerra afghana non avevano ancora preso il loro posto i “martiri” omicidi-suicidi.

L’invasione sovietica mi sembrò un estremo episodio di quel social-imperialismo (così lo chiamavamo) sui cui nefasti, Ungheria 1956, Praga 1968, Polonia sempre…, ci eravamo formati. Brezhnev andava a riprendersi direttamente l’Afghanistan che i suoi satelliti locali avevano strappato alla monarchia di Zahir Shah, ribadendo laicità e progressismo coi metodi più ferocemente dispotici e suscitandosi contro una ribellione mista di fanatismo islamico, tribalismo e spirito di libertà. Fu una guerra spietata: i civili uccisi furono forse due milioni, i profughi e gli sfollati più di 7 milioni. Fu una guerra pressoché mondiale di quasi dieci anni, e soprattutto una guerra calda fra Urss e Usa per interposto Afghanistan.

La sua data finale, all’inizio del 1989, segnò la disfatta sovietica. Pochi mesi ancora e venne il crollo del muro e la fine dell’Urss.

Andati via i russi dall’Afghanistan, continuò la guerra civile. Il lato da cui mi capitò di guardarla era quello ceceno.

Lei sa che Dzokhar Dudaev, il carismatico leader dell’indipendentismo ceceno, ucciso a 52 anni nel 1996, era stato un generale dell’Armata Rossa? Che aveva una moglie, Alla, ebrea? E che quando era a capo delle truppe sovietiche nella base aerea estone di Tartu ignorò l’ordine di reprimere la ribellione dell’Estonia e degli altri paesi baltici e anzi la favorì, finché fu richiamato nel 1990? Sa che Dudaev aveva partecipato alla guerra russo-afghana, ma non dalla parte dei mujaheddin, bensì nei ranghi dell’Armata Rossa? E che altri ceceni erano stati arruolati in quei ranghi? Sa che Shamil Basaev e i suoi nell’agosto del 1991 circondavano Eltsin a protezione mentre i suoi rivali tentavano il putsch?

Racconterò anche a lei una barzelletta che mi raccontò un veterano delle deportazioni e delle guerre caucasiche in un villaggio ceceno. C’è un confronto armato alla frontiera fra Urss e Cina, e al Cremlino si diffonde il panico. In una angosciata riunione del Politburo, uno dice: c’è un’unica speranza, parliamone coi ceceni.

Vanno in Cecenia, convocano l’assemblea degli anziani, descrivono la situazione e supplicano il loro aiuto. Il capo degli anziani dice che devono consultarsi. I russi li lasciano soli, e dopo una decina di minuti vengono richiamati. Il capo degli anziani gli chiede: “Una domanda ancora: quanti sono i cinesi?” “Un miliardo”, rispondono i russi. “E dove cazzo li seppelliamo?”

I ceceni sono leggendari combattenti, e i russi se ne sono serviti tante volte per schierarli nelle prime file. Sono quelli che Tolstoj chiamava cosacchi, quelli di Chadži-Murat. Sono anche quelli che, mi spiegò un altro dei loro vecchi, “sono stati creati per stare come un moscerino nell’occhio dei russi”.

Insomma, in Afghanistan i ceceni, e con loro una maggioranza nelle centinaia di migliaia di soldati musulmani dell’Urss, finirono per odiare quella guerra e simpatizzare coi mujaheddin che si battevano per la loro terra. Ma allora la loro bandiera non era tanto l’islam quanto un nazionalismo caucasico, il vecchio sogno di una Federazione dei popoli della Montagna.

Shamil Basaev, il loro eroe guerrigliero, guidò nel 1992-93 la guerra della piccola Abkhazia contro la Georgia, col sostegno russo. E’ probabile che oggi l’audacia di Basaev e dei suoi sia ormai incorporata senza residui all’Internazionale del terrore islamista. Ma ci fu bisogno di una lunga strada per fare di lui un terrorista islamista.

11/18

Fra il 1994 e il 1996 Basaev vinse la battaglia di Grozny contro le forze corazzate russe e le cacciò dalla capitale. Perse sotto le bombe moglie, figlio, una sorella e un fratello e altri famigliari. Sequestrò un ospedale in territorio russo, i russi attaccarono e morirono 129 civili, Basaev e i suoi ne uscirono portandosi degli ostaggi e una dose ingente di cesio radioattivo. Durante la soverchiante controffensiva russa su Grozny, dal palazzo della presidenza restarono vivi in 14 su 76, e Shamil fu l’ultimo a uscire. Riconquistata Grozny, i ceceni ottennero la fine negoziata del primo conflitto e l’indipendenza di fatto.

Quando io l’ho conosciuto, nel 1996, nel breve intervallo fra le due guerre cecene, Shamil era ministro della repubblica cecena di Ichkeria. L’anno dopo sarebbe diventato vice primo ministro e poi, nel 1998, primo ministro.

Ma nel 1998 stava già abbandonando il programma dell’indipendenza per passare alla jihad, e identificandosi con l’emiro Ibn al-Khattab. Nell’agosto del 1999 attaccarono il vicino Dagestan per proclamarvi la repubblica islamica, e ne furono respinti dopo un mese. A settembre una serie di bombe in caseggiati russi ammazzarono quasi 300 persone: sono le stragi di cui lei, Oriana, parla. Basaev negò di esserne l’autore, ma non era più il punto. Cominciava la seconda guerra cecena, e ora toccava a Putin,

il quale giurò che li avrebbe stanati uno per uno, “fin dentro i cessi”. L’anno scorso Basaev, braccato sulle montagne, è incappato in una mina: si è fatto riprendere dai suoi mentre gli amputavano un piede, senza anestesia. Poi si è rimesso dritto e ha sfidato a duello Putin.

Avevo fatto un viaggio avventuroso, avventurista, nella guerra cecena, nel febbraio 1996.

Ero solo, avrei scritto per l’Espresso e filmato per Mixer. Rimasi un mese, andai da Grozny ai villaggi di montagna fino in Dagestan, stetti coi combattenti e con la gente comune, feci perdere le tracce agli spioni russi. I ceceni ritrasmisero il mio documentario nella loro arrangiata tv.

Pochi mesi dopo, a settembre, furono rapiti fra l’Inguscezia e la Cecenia tre italiani di Intersos, due medici e un funzionario.

Il rapimento si protrasse, gli addetti italiani non cavavano un ragno dal buco, e ripartii per la Cecenia. Lì c’era gente così ottusa da sequestrare e magari assassinare dei volontari andati ad aiutare, però anche gente per la quale amicizia e ospitalità, e riconoscenza, erano davvero sacre. Durante quasi due mesi si mobilitarono per tirare fuori gli italiani. Era un favore che mi dovevano…

Le racconto come feci amicizia col famoso Shamil Basaev. Copio dal mio diario.

“Ho una gran bronchite, mi riempio di antibiotici. In fondo alla mia miscredenza, c’è una certa fede nell’onnipotenza degli antibiotici. Sputo, ma qui sputano tutti, così, più che catarrosi, sembriamo uomini veri.

Viene a prenderci un distinto I., ufficiale portavoce di Shamil, parla un po’ di francese perché si è curato della tubercolosi in Francia. Prima era politologo, è stato di passaggio anche in Italia e mi dice con compitezza: “Veuillez transmettre mon salut à la belle ville de Verona”. Prima era con Maskhadov, ora, dice, c’è bisogno di un atteggiamento più risoluto.

Shamil sta in una casetta qualunque in periferia, ha un raffreddore mostruoso, tossisce, tiene il cappello calcato e gli occhi puntati in basso, risponde a malapena. Sembra una specie di losco mullah intimidito –ha appena 31 anni- ma una volta finita l’intervista ufficiale si leva il cappello e resta con una zucca pelata, diventa allegro e spiritoso e non vuole più lasciarci andare via. Si pranza, e lui e i suoi, compreso uno bello, giovane, che ha perso una gamba, sfottono Z. (la mia accompagnatrice di quel giorno, una principessa abkhaza) su storie di quel paese.

12/18

Ci facciamo una quantità di polaroid. Conosce Celentano, come tutti. Gli regalo, a malincuore, il mio tesoro di antibiotici e di spray.

Stiamo fino a tardi, poi ci invita –una specie di ordine- ad andare, senza di lui, che non si fida, al suo villaggio e a filmare anche la sua famiglia. “E’ la prima volta”, dice. Il villaggio è Vedeno, in montagna, uno dei luoghi più bombardati del mondo.

Ci andiamo di notte, con un viaggio forsennato in tre auto. Nella casa c’è la sua moglie abkhaza. E’ una ragazza, Indira, timida, carina, malinconica. Si è convertita all’islam, è innamorata di lui e sta col fazzoletto sul capo in quella reclusione domestica, con un bambino vispo e una bambina che dorme nella culla.

Indira e Z. parlano in disparte, si tengono la mano, hanno voglia di piangere. C’è un anziano,neanche tanto, che mi racconta vivacemente la battaglia di Shatoj, e quando gli chiedo se è un parente risponde: “No, sono un sasjed, un vicino”. Lo dice solo perché tutti ridano, lui è il padre di Shamil.

C’è una bella sorella, che sta per sposarsi. Una madre grassa e scettica. Torniamo molto tardi, dopo aver cenato di nuovo con riso e verdure loro e un pezzo dello storione infinito che ci portiamo dietro da giorni, e una confettura di mele cotogne a fettine, haib…

Rivedo Shamil in una campagna vicino all’autostrada Baku-Mosca, dove Dudaev prima d’essere ammazzato stava costruendosi una casa. C’è un raduno per commemorarlo e per la festa della repubblica. Bello, un posto alto su un fiume, pieno di donne, bambini, sidecar, cavalli, cibi da scampagnata e zjukal, girotondi guerrieri.

Su un camion scoperto a far da palco stanno i comandanti, ci salgo anch’io, sotto la gente. Le donne, le anziane soprattutto, interrompono gli oratori, fanno domande, ridono, commentano. Shamil è l’eroe di tutte, che lo trattano con una confidenza di madri e figlio.

Il giorno dopo, a Grozny, nel giro di Shamil incontro l’emiro arabo Khattab, e gli faccio una lunga intervista. Tiene a dire che è la prima che conceda a un non musulmano. Personaggio da non perdere, e nemmeno da trovare. E’ un combattente leggendario. Non vuole dirmi di dov’è –forse del Kuwait /era saudita/, lo dicono figlio di un ricchissimo.

Ha perso tre dita della mano destra, fasciata da un mezzo guanto di cuoio. Ha a che fare col Pakistan, ha imparato il farsi in Afghanistan, il russo in Tagikistan e in Cecenia, l’inglese lo sapeva già. Lo faccio parlare in russo e in arabo –qualcuno tradurrà. Ha con sé un suo fido, un Ramazan-Abdullah. Ha un camion militare che guida lui, dice che è la sua unica auto e vuole che lo filmi. Ha barba e capelli neri, in lunghi boccoli, è vestito con una mimetica e una specie di eskimo, in testa un’alta sciapka (altre volte un basco nero): un’inaspettata vanitosa imitazione del Che.

Il suo compagno prende infatti in giro l’abbigliamento, “quasi cubano”: “Moda”, dice lui. Il dettaglio spiazzato è una sciarpa di seta candida, da cui non si separa. E’ un regalo prezioso, dice, gliel’ha fatto Osama bin Laden. (Lei Oriana avrebbe drizzato le orecchie, certo. Be’, io l’avevo sì e no sentito nominare).

Parla a lungo, dell’Afghanistan e della Cecenia, che darà il colpo di grazia alla Russia, e poi, garantisce, si passerà agli americani. Deplora le donne che vanno in giro mostrando le gambe e a testa scoperta. Alla fine raccomando anche a lui, come a tutti, gli italiani rapiti. Devi aver paura di muoverti assieme a me –dice. Anche tu assieme a me –rispondo. Sbruffone per sbruffone. E’ di stanza a Vedeno con Shamil. M., che è il giovane intelligente consigliere di Maskhadov, mi dirà poi che sarà difficile per la Cecenia convivere con persone come lui. Anche altri lo dicono: “Finché si tratta di combattere, ma poi…” /…/

13/18

Con Shamil ceno di nuovo la sera dopo, al posto telefonico. /C’era solo un posto a Grozny per fare e ricevere telefonate/. Il giovane abkhazo mutilato amico di Shamil mi regala una sua fotografia. Shamil mi chiede se al ritorno in Italia potrò occuparmi di un altro dei suoi che è cieco per un’esplosione, ma gli hanno detto che potrebbe recuperare la vista se fosse operato. /…/ E’ saltato un palazzo a Mahackala, in Dagestan, e Basaev ha fatto sapere che loro non c’entrano niente: “Non siamo terroristi”. /…/

Domenica. Di mattina presto al dormitorio di Shamil, già sede del FSB /il servizio segreto russo, successore del KGB/, e da lì per tutta una giornata elettorale al confine nord, sul Terek. Siamo un corteo di auto cariche di armati che si divertono a sorpassarsi e a far andare musiche terribili a tutto volume. Carcasse di aerei e di tank. C’è un raduno in una caserma con la gente del luogo –i vecchi seduti, gli uomini e i giovani in piedi, le donne e le ragazze dietro a tutti, ma senza soggezione.

Si svolge una lunga e lenta discussione, finché interrompo la registrazione e chiamo Shamil, dal capo della lunga tavola dove siamo seduti. Hanno una reazione sorpresa, che cresce quando S. /un giovane che aveva studiato in Inghilterra/, con qualche esitazione, traduce le mie parole: Non pensi di fare un errore candidandoti alla presidenza? Sei giovane, sei l’eroe della tua gente, sei il simbolo dell’aspirazione a una federazione dei popoli del Caucaso del Nord.

In lizza per la presidenza diventi un politico come gli altri. E le elezioni sono altra cosa dalle battaglie o dagli ideali: nelle elezioni la gente vota per candidati maturi, affidabili, normali, come Maskhadov…

L’assemblea resta in un silenzio sbalordito, anche Shamil, che mi guarda fisso per un po’, poi si mette a ridere. Libera tutti, tutti si mettono a ridere. Rivolto più all’uditorio che a me, dice che accetta la “provocazione” –così traduce S.- e anzi ringrazia per la franchezza. Ma io non conosco abbastanza la situazione, dice. Iandarbiev /il presidente in carica/ ha semplicemente ereditato la presidenza quando è stato ucciso Dudaev, perché era il suo vice. Iandarbiev ha firmato un ukaz che vieta ai generali –“cioè a tutti”- di candidarsi.

Noi, dice, favoriamo la candidatura di Ruslan Khasbulatov /ceceno, era allora presidente del Soviet Supremo/, perché farà disperdere voti al primo turno, e al ballottaggio io vincerò nel confronto diretto con Maskhadov… (Le perse, naturalmente, le elezioni, nel gennaio 1997, senza secondo turno: prese il 23 per cento contro il 60 di Aslan Maskhadov e il 10 di Iandarbiev).

Poi ci trasferiamo tutti nella piazza dov’è pronto un palco, c’è un vento forte e gelido, le donne di nuovo prendono i primi posti e interloquiscono vivacemente col discorso di Shamil, ai bordi qualcuno assiste a cavallo.

Shamil suscita anche risate forti e allegre. Poi rientriamo al chiuso, e ora l’atmosfera è solo festosa. Shamil mi fa registrare una sua solenne dichiarazione di scuse all’Italia, in nome del popolo ceceno, per il rapimento dei nostri connazionali. Chiama vicino a sé un bambino, scherza sui suoi grandi progetti di combattente.

Il bambino dice che vuole traghettare la gente da una sponda all’altra del Terek. Con me Shamil si vendica, dice che diventeremo tutti e due presidenti di repubbliche. Vuole convincermi che ho bisogno di una moglie cecena. Mi dico onorato –gli uomini ceceni sono gelosi delle loro donne… Ma ho già una donna, la amo, l’ho lasciata sola a Firenze, come tu con Indira a Vedeno. E sono contrario alla poligamia. Ma non è poligamia, dice, solo due. Due è la misura giusta, una moglie sola è fastidiosa, due si zittiscono a vicenda. Mannaggia…

14/18

Torniamo a Groznij a tarda sera, Shamil scrive ancora una lettera per l’ambasciatore italiano a Mosca”.

Questo, il futuro terrorista islamista numero uno. Le vite possono prendere le pieghe più diverse. Tornato in Italia andai difilato in galera, e poco dopo ebbi ragione di temere che quei bravi ceceni stessero lì a rimuginare su come venire a tirarmi fuori. Non scherzo, Oriana, fui preoccupato davvero per la nostra, mia e sua, Torre di Pisa. Mi sbrigai a scrivere ai ceceni che c’ero venuto di mia volontà, e che ci stavo bene. Più o meno.

/Shamil Basaev restò ucciso nel 2006 in Inguscezia. In quegli anni aveva capeggiato una guerriglia antirussa ormai connotata come una jihad islamista. Rivendicò di aver organizzato e autorizzato imprese di terrore come quella al teatro Dubrovka di Mosca nel 2002 e, la più orrenda, alla scuola elementare di Beslan nel 2004, anche se di questa parlò come di una terribile tragedia e la imputò all’intervento delle forze russe. Ibn al-Khattab fu ucciso nel 2002 in Cecenia, con una lettera avvelenata, ed è oggi venerato come un gran santo dai seguaci del sedicente califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. I figli di quei ceceni sono oggi il nerbo militare del califfato/.

A proposito, i tre italiani li liberammo, grazie ai miei amici ceceni, e nonostanti le autorità italiane. Ma è un’altra storia, e non è il luogo di tornarci su.

Le dirò solo, perché lei saprà apprezzare, che in Russia ufficialmente, e perfino in Italia, si sostenne che io ero in realtà l’organizzatore dei sequestri, in combutta con i terroristi ceceni, per soldi, o per scampare alla galera, o per qualche altra buona ragione. Lo apprezza, vero?

Eravamo ai “Tristi tropici”, dunque: che ha un ultimo capitolo intitolato “Il ritorno”. Sono una quarantina di pagine avvincenti. Le dico subito che non me ne ricordavo, e mio fratello Gianni mi ha spinto a ritrovarle.

Esso muove da un dilemma cruciale per la vita personale di Lévi-Strauss, e per la professione dell’etnologo che tanto gli deve. Ma lo stesso dilemma attraversa il rapporto di tutti noi con le culture straniere, e specialmente le sue versioni politiche, così importanti: il terzomondismo, per esempio, e le sue variazioni. E ora l’islam.

Stia a sentire allora che cosa scrive Lévi-Strauss:

“Se egli /l’etnografo/ è in buona fede, un interrogativo gli si pone: il valore che attribuisce alle società esotiche –tanto più grande, sembra, quanto più sono tali- non ha un fondamento proprio; esso è in funzione del disprezzo, e talvolta dell’ostilità, che gli ispirano i costumi in vigore nel suo ambiente.

Spesso sovversivo fra i suoi e ribelle agli usi tradizionali, l’etnografo appare rispettoso fino al conservatorismo, appena la società in questione si trova ad essere diversa dalla sua”.

Non ho paura di banalizzare additandone la lettura attuale, e accostando il militante di sinistra europeo, o “occidentale”, all’etnografo.

Della nostra cultura laica occidentale si dice che sia l’unica che accoglie la critica se non la denigrazione di se stessa come fondamento del proprio rapporto con le altre.

A controprova, si protesta che di fronte alle non rare conversioni di cristiani all’islam stanno le rarissime, se non nulle, conversioni di musulmani al cristianesimo. E ancora: c’è l’arrischiata questione della “reciprocità” nel riconoscimento dei diritti alle minoranze fra paesi occidentali e islamici.

Qui si costruiscono moschee (lei non vuole, lo so), e in Arabia Saudita si incarcera chi detenga una Bibbia. Non c’è parità, ma noi siamo noi proprio per questo.

Noi vorremmo credere –noi del cosiddetto Sessantotto, adesso intendo: ma ormai ogni “noi” diventa arbitrario, e forse è meglio così- che l’interrogativo di Lévi-Strauss abbia la sua risposta provvisoria in una specie di ritorno a casa, ma a porte aperte.

15/18

Nel serbare con cura, cioè, simpatia e solidarietà per tutti i confratelli in umanità e per tutte le vittime di violenze e dolori e ingiustizie, senza più pretendere o aspettarsi che nelle vittime di oggi stia la promessa del riscatto di domani. Era bello confidare che gli ultimi della terra fossero i primi del cielo cristiano, o dell’avvenire socialista, liberatori, con se stessi, dell’intera umanità. Poi ci rassegnammo ad ammettere che i proletari, delle metropoli o del terzo mondo, non avrebbero salvato l’altro mondo né questo.

Neanche i ragazzini di Elsa Morante avrebbero salvato il mondo, neanche le donne. Il mondo non ha salvatori predestinati, nemmeno gli ultimi di turno.

Per l’etnografo come per il militante di sinistra, il ritorno a casa è una sconfitta.Mi sembra improbabile che Lévi-Strauss non si sia accorto dell’affinità profonda fra il suo etnografo –lui- e il militante di sinistra.

Era la prima metà dei ’50, e la “società diversa” e a suo modo esotica cui il militante di sinistra europeo andava in pellegrinaggio era ancora l’Unione Sovietica. Fra poco sarebbe stata sostituita dal Terzo Mondo.

In questa espressione, Terzo Mondo, è ancora più evidente la somiglianza fra l’esotismo dell’etnologo e quello del rivoluzionario. Anzi, la constatazione stupita e autocritica di Lévi-Strauss circa il doppio binario dell’etnografo suona ancora più incisiva se la si adatti al militante di sinistra. Basta sostituirlo all’etnologo nel brano citato sopra, così:

“Se egli è in buona fede, un interrogativo gli si pone: il valore che attribuisce alle società esotiche –tanto più grande, sembra, quanto più sono tali- non ha un fondamento proprio; esso è in funzione del disprezzo, e talvolta dell’ostilità, che gli ispirano i costumi in vigore nel suo ambiente. Spesso sovversivo fra i suoi e ribelle agli usi tradizionali, il militante di sinistra appare rispettoso fino al conservatorismo, appena la società in questione si trova ad essere diversa dalla sua”.

Con una complicazione in più, quanto al “ritorno”. Che anche quando sia tornato in pieno, e a volte con una voracità vendicativa, a vantaggi e privilegi della vita europea, il militante di sinistra non gliela dà vinta, magari reinventa la sovranità nazionale, e l’ “Occidente” resta per lui il titolare dell’iniquità e della violenza del pianeta.

Il dannato Occidente poi, nella sua quintessenza, è l’America e la sua dépendance israeliana. Anche in questo settembre. Costretto a smettere di simpatizzare con l’Urss, magari soltanto perché l’Urss non c’è più, puoi ritrovarlo a simpatizzare con la Russia, che faccia da contrappeso all’America gendarme del mondo.

Un bel giro, per ritrovarsi più o meno nella stessa trincea dalla quale la destra non si è mai mossa: nazionalismo, antiamericanismo, cospirazionismo, e antisemitismo. C’è una cosa molto importante e molto semplice che non vogliono capire: che gli islamisti –io dico gli islamisti, non i musulmani- ci odiano e ci attaccano non per le nostre colpe, ma per i nostri meriti. Per la libertà delle donne, per la libertà di parola, per l’ironia. Comunque, io non ce l’ho tanto con chi sputa nel piatto dove mangia: ce l’ho con chi sputa nel piatto dove mangio.

La storia è vecchia come quella del buon selvaggio. Il meccanismo mimetico di quella politica militante (e di quella etnografia…) riproduceva l’imbroglio della dialettica del transfuga e del rinnegato. L’intellettuale che avesse tradito le file della borghesia da cui proveniva per entrare in quelle proletarie si chiamava, graziosamente, “transfuga”; chi avesse fatto il tragitto contrario era, brutalmente, un “rinnegato”.

Persona senza classe e senza radici, le avrebbe trovate solo altrove, offrendosi o vendendosi. Una volta riconosciuto l’inganno di questa teologia, avrebbe potuto ricostruire faticosamente se stesso e le proprie radici, al costo di una solitudine, ma anche col vantaggio, se non avesse avuto la debolezza di buttarlo via, della memoria del viaggio compiuto.

16/18

Spero di averle così spiegato perché, in mezzo a un centinaio di dissensi, io approvo senza riserve il suo disprezzo per “il conformismo o meglio la vigliaccheria che in nome della Diversità (sic) chiama ‘usanza locale’ l’infibulazione ossia la bestiale pratica che molti mussulmani impongono alle giovinette per impedir loro d’avere rapporti sessuali e gioirne”.

Con due aggiunte. La prima, che come lei deve sapere, la pratica di mutilare i genitali delle bambine è precedente all’islam e diffusa anche oltre l’islam, benché in molti paesi islamici sia più tenace. La seconda aggiunta riguarda gli uomini. Gli uomini hanno spinto la paura di perdere la presa sulle donne fino a mutilarle della loro sessualità. E così facendo –vedo che quest’altra metà dell’orrore è ignorata- hanno mutilato anche se stessi di una vera felicità sessuale, che non può che essere reciproca. Trasformando così il sesso, imbecilli, in una strabuzzata mungitura.

Lei è arrivata a scrivere: “Secondo me v’è qualcosa, negli uomini mussulmani, che disgusta le donne di buon gusto”. E’ troppo o troppo poco. Troppo, perché “gli uomini mussulmani” non esistono. Troppo poco, perché a concedersi l’iperbole si poteva dire “gli uomini” e basta.

Ho usato questa formula così comune del “ritorno a casa” (era l’incubo di Franz Kafka) perché appunto quell’ultimo capitolo di Lévi-Strauss s’intitola “Il ritorno”. Ci sono pagine, fra queste finali, sui viaggi in Kashmir, India e Pakistan, dedicate all’islam.

“Già l’Islam mi sconcertava per un atteggiamento verso la storia contraddittorio al nostro e contraddittorio in se stesso: la preoccupazione di fondare una tradizione si accompagnava alla frenesia di distruggere tutte le tradizioni anteriori”.

Naipaul ha riscosso la lunga rendita di questo pensiero, formulato con un rancore ignoto a Lévi-Strauss. Del quale troverà, se le importa, in quelle pagine, osservazioni penetranti e allarmanti sul semplicismo legalista musulmano, sulla promiscuità maschile e la rimozione delle donne (“il burkah moderno, simile a un apparecchio ortopedico…”), sulla convinzione di professare i grandi principii universali, inficiata dalla dichiarazione di essere i soli a praticarli, sulla povertà del loro ripudio delle immagini… E troverà suggestioni folgoranti sull’islam come Occidente dell’Oriente e come barriera alla ricomposizione della scissione fra Oriente e Occidente.

Su Napoleone, “questo Maometto dell’Occidente”, sulla Francia, “in via di diventare musulmana”, conservatrice nostalgica dopo il fallimento e il pentimento della rivoluzione.

Riprendo qui invece una domanda che Lévi-Strauss si faceva allora, senza darsi una risposta certa: “Se una Francia di 45 milioni di abitanti si aprisse largamente sulla base dell’uguaglianza dei diritti, per ammettere 25 milioni di cittadini Musulmani, anche se analfabeti in gran numero, essa non adotterebbe un procedimento più audace di quello a cui l’America deve di non essere rimasta una piccola provincia del mondo anglosassone… Potremo mai farlo? Può accadere che due forze aggressive, sommandosi insieme, invertano la loro direzione?”

La Francia ha oggi /nel 2001, quando scrivevo; oggi ne ha 67/ 59 milioni di abitanti più o meno, credo: potrebbe ammettere 33 milioni di musulmani –in aggiunta ai 4 milioni che ha già? L’Italia ne ha più o meno 58 milioni: potrebbe ammetterne 30 milioni a sua volta?

Lei risponde come se si potesse (e si dovesse) fermare l’arrivo degli stranieri.

Non si può, e credo che non si debba. D’altra parte io non riesco a enunciare principii che non facciano i conti con l’accumulazione di detriti –la discarica della storia, sulla quale cresce il futuro.

17/18

Per esempio: il principio del Ritorno dei discendenti dei palestinesi profughi da Israele è giusto: la sua attuazione però segnerebbe ipso facto la cancellazione dello Stato di Israele.

C’è stata una coincidenza, attorno al periodo di uscita della sua sfuriata sul Corriere. Sulla Stampa, Barbara Spinelli ha pubblicato a sua volta un lungo articolo che ha fatto un suo proporzionale scalpore, dedicato alla tragedia israelo-palestinese /Si intitolava “Ebraismo senza mea culpa”, 28 ottobre 2001/.

Lo scandalo stava nell’accusa mossa all’ebraismo, di Israele e della diaspora, di non saper chiedere perdono. Io stesso ho trovato assurda quella sortita, ma non è di questo che voglio parlare. Piuttosto del fatto che, in un momento in cui era all’ordine del giorno un’assenza o un silenzio delle donne –di donne prigioniere in Afghanistan o di donne estraniate in Occidente- due interventi fra i piùaggressivi (forse il secondo emulava il primo) erano di donne. Le quali prendevano ambedue per il collo la questione, procurandosi, lei Fallaci, l’accusa di razzismo antiislamico, l’altra, Spinelli, di antisemitismo addirittura. Indebite forse ma provocate; e ambedue, deliberatamente, “di sinistra”, se posso dire così.

Cioè rivendicatrici di un retaggio di antifascismo democratico e liberale, laico e intransigente. In ambedue i casi con un effetto che chiamerò di “troppa grazia”.

Ora la coincidenza (e l’eventuale emulazione, se ci sia stata) fra due irruzioni pubblicistiche ciascuna a proprio modo “eccessiva”, sarebbe un aneddoto effimero se proprio quella sensazione di “troppa grazia” non coinvolgesse una questione decisiva per l’esistenza, o l’inesistenza, della sinistra alla data di oggi.

La sinistra ufficiale contemporanea sembra condannata alla dose modica. Essa si chiama “centrosinistra”, più che per un’alleanza, per una suddivisione meramente elettorale: la comica evoluzione attraverso cui le due parole sono diventate una sola, compresa la disputa sul trattino o no, è un segno dell’assimilazione di posizioni.

La loro identità è soprattutto una progressiva distanza dal passato, e si ridurrà alla fine a una generica sobrietà –dunque al centro, fisico e metafisico- contro la smodatezza di altre posizioni. In Italia la cosa è specialmente chiara: presentandosi ora il centrodestra come un’associazione fra estremismi reazionari, xenofobi e clericali.

Al capo opposto, un estremismo di sinistra meramente conservatore rifiuta le questioni di misura, com’è inevitabile, in nome degli aut-aut. Così per l’alternativa fra pace e guerra, che sostituisce la ricerca di un diritto internazionale e degli strumenti per prevenirne le violazioni e sanzionarle. Basta chiamare guerra ogni uso della forza per essere contrari, con tanto di Costituzione pro domo propria.

“Troppa grazia”: e se no grigiore e mediocrità. E’ inevitabile? Forse. Sembrerebbe dirlo l’esito di interventi come il suo, che si tramutano, al di là o contro le intenzioni, in bombardamenti d’alta quota sul deserto dei quali si avventeranno le truppe di terra dell’avarizia civile. E’ inevitabile?

Lo sguardo estremo è prezioso e pericoloso come lo sguardo geloso. Vede dettagli che sfuggono all’occhio normale, e li sopravvaluta. Un fazzoletto può portare a strozzare Desdemona, l’amata.

Oggi, il fazzoletto di Desdemona dell’estremismo è la globalizzazione. Movimento formidabile e inarrestabile, essa è però dichiarata compiuta. Tutto il mondo è già paese. A questa fretta di dare per avvenute tutte le cose non opporrei il freno della moderazione, o la sopravvalutazione di ciò che a quel movimento resiste, tardandone l’adempimento.

18/18

Mi interessa la coesistenza mutevole e perenne di ciò che avanza e ciò che resiste, del nuovo vecchio e del vecchio nuovo.Al nostro proposito importa la questione degli spostamenti umani sulla terra. Il corollario della mondializzazione compiuta è la rivendicazione di una piena libertà di movimento degli umani sulla terra.

Essa è erede di antichi universalismi (e di uno dei più belli fra loro, l’internazionalismo originario) ma si vuole fondata sulla dottrina della libertà di circolazione: se essa deve valere per tutte le merci, perché non prima di tutto per l’uomo e la donna? Tuttavia, né le merci circolano davvero in piena libertà, né uomini e donne sono merci alla stregua delle altre.

L’avvento di genti nuove in comunità più o meno tradizionali suscita tensioni più delicate che non l’invasione di armamenti, droghe o bevande con le bollicine.

I confini del mondo non si sono sciolti né allentati: o piuttosto, si sono irrigiditi e incattiviti almeno quanto si siano attenuati e ingentiliti.

Non era vero che i proletari non avevano da perdere che le loro catene. Avevano da perdere le loro donne. Ed è venuto il momento. Le guerre che il mondo cova non sono lo scontro fra il nuovo che avanza e il vecchio che resiste.

Il vecchio scalzato, spodestato e minacciato nel suo patrimonio ultimo, la proprietà delle donne, reagisce con una nuova energia, e reinventa e rimodella un islam che faccia al suo scopo. I movimenti di popoli saranno sempre più fughe dentro i varchi lasciati aperti da questi due fronti. Le donne verranno a cercare salva la vita, e poi libera…(Fine).

Da-Di Adriano Sofri.

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Inoltre Luigi Civolani e' il Presidente del Centro Studi Itineranti Associazione Teatrale no profit : : "G.A.GE.DI.S." Libera Universita' di Nuceria /. Teatro e vita . Pertanto tale iniziativa "NON RAPPRESENTA CONFIGURAZIONE di TESTATA GIORNALISTICA e/o prodotto editoriale ai sensi della legge 7 marzo 2001 n: 62, interpretando il DIRITTO SANCITO dell' articolo 21 della COSTITUZIONE ITALIANA sulla LIBERTA' di PENSIERO ed OPINIONE. CHI SONO IO ?..... Una maniera insolita ed introspettiva per conoscermi meglio, più da vicino …..CHI SONO IO ? ..... Dire di se stessi cosa si è, non è facile, anche perché ciò dipende dalla propria autostima. Ogni essere umano, di sé ha sempre due immagini : una reale ed un’altra ideale, e spesso dibatte tra ciò che è e tra ciò che crede di essere . Inoltre, per un uomo è ancor più difficile dibattersi in ciò che non vorrebbe essere. A me piacerebbe dir soltanto: “Sono un italiano, un essere umano creativo che quando può, cerca di applicare l’umanesimo integrale ed in presentazione, gradirei pure aggiungere : “sono fiero di essere nato a Napoli 65 anni fa e vivo nel Salernitano “. Solo ciò basterebbe per me, ma forse non per voi. Solitamente, la latente curiosità umana, sempre un po’ ipocrita, tende alla materialità del fare e del dire. Infatti se chiedete ad un uomo chi sei? questi vi risponderà subito dicendovi: “Io sono l’ingegnere tal dei tali , il dottor… l’avvocato…, il ragioniere…” e così via dicendo… e magari aggiungerà pure il verbo avere (possesso), ovvero," io ho… io ho ….io ho"… e costui non tenderà mai ad esprimere chi è veramente (anche perché non lo sa). Così tutti noi, non ci accorgiamo che non siamo ciò che facciamo ed abbiamo, ma solo noi stessi nel bene e nel male, o meglio NOI nel se, e prima ancora nel prese. Tale mia premessa è servita per accontentarvi anche in maniera differente e pertanto, visto che avete bussato alla “mia porta”, credo che una cosa la conoscete per certezza, e già da prima : Io sono un “provocautore”, spesso voce eretica dell’ insorgenza, ma come tutti gli autori, sono un creativo; io in etichetta mi presento in polivalenza, ovvero, un artista, un attore monologhista, uno scrittore, poeta, autore teatrale-monologhista; formatore, regista per il teatro civile e sociale di discorso. Però nella mia poliedricità ed eclettismo sono anche un aziendalista-imprenditore di me stesso e per terzi. Professionalmente sono psicologo- formatore comunicazionalista, (LNP, cv, cnv)…. il resto lo aggiungerete voi e mi auguro che in merito alle dimostranze le vostre “sentenze” siano indulgenti. In conclusione , per non annoiarvi più di tanto , preferisco rimandarvi ( e se lo vorrete) alla lettura completa della mia scaletta curricolare (biografia, ecc..), che troverete in questo blog. Infine ,in considerazione che non amo autocelebrarmi e quindi scrivere da solo (e per me) ”io chi sono” nel senso dell’ encomio, vi lascio in compagnia di una recensione scritta sul sottoscritto, dal Prof.re NEURO BONIFAZI, critico letterario già ordinario di letteratura italiana e filologia nella Università di Urbino, recensione scritta in occasione della pubblicazione editoriale della sua opera critico-antologica sulla storia della letteratura italiana contemporanea, ove il sottoscritto , è inserito e citato tra gli autori più meritevoli dell’ ultimo trentennio storico del 1900 . (Luigi Civolani.." Il ProvoC-Autore"-conduttore del blog .) _________________________________________________________________________________ P.S. : Neuro Bonifazi su Luigi Civolani: LUIGI CIVOLANI , tra gli altri premi e benemeriti già acquisiti, è stato insignito per ben tre volte del “Premio Lirici Greci “al concorso “Penisola Sorrentina “. Scrive poemi lirico-saggistici e prosa teatrale monologhista, di forte impegno sociale e morale, dove l’impronta lirica si adatta favorevolmente ed efficacemente al pensiero utopico e alla comunicazione efficace, oltre al rilevamento personale libertario e autobiografico : TRACCIA di ESEMPIO : Dell’ essere, la maturità vera/è quella che riesce a conservare/per sempre quella infantile./Scrivo per me/la scrittura mi aiuta/a buttar giù i pensieri/.Scrivo sempre a penna/e mai con una tastiera./La mia vera conversione/ è avvenuta quando la mano/alla penna/la lentezza del pensiero ha imposto/, prima erano le dita a inseguir la mente,/or è la mente che insegue la velocità delle dita. Recensione del Prof. Neuro Bonifazi .(Critico Letterario) su Luigi Civolani (Fine) . Mia PIATTAFORMA TELEMATICA ( parziale)su facebook. Inoltre Presente in esterno su internet -google -Twitter ed altri Social network famosi : –SU FACEBOOK Gruppi : ALTRA POLITICA Nocera Rivoluzionari da sempre, Fronte Civico -extraparlamentare Nocera-Agro il Portale del cittadino dissidente./ Nocera il Popolo Sovrano impegnato – CAFFE’ DELL’ ARTE POLIVALENTE – CASERMA TOFANO bene dismesso da riutilizzare – FRATELLANZA MASSONI E PROFANI Degni. Roosevelt unione sezioni Campane ed opere – GAGEDIS TEATRO D’INSIEME – 5 +STELLE (GAP-DD) GRUPPO Campano – 5 STELLE (GAP ) A SOSTEGNO e Supporto Sovranita' Popolare – GRUPPO ‘PORTA APERTA’ – IL PROVOCAUTORE ‘SOCIAL FORUM’ – INFORMA E FORMA bloggers – L’OMBRA DEL POPOLO nefandezze del palazzo e della piazza – NESSUNO ESCLUSO..Assieme ( progetto da vicino nessuno e' normale). – NO MENTI ASSOGGETTATE. A Porte aperte . La Civilta dei quartieri autogestiti Popolo Sovrano proponente ( Gruppo Nazionale) – /IO GOVERNO/LA FOLLA – SUA MAESTA’ IL CITTADINO . Cittadini per la Democrazia diretta partecipata da tutti i Comuni d'italia. – VITE DISOBBEDIENTI . Marco travaglio senza il bavaglio Demograzia diretta-Pagani Insenante -monologhista Unions club coalizione sociale( con Landini) ecc.ecc... Leggi tutti gli articoli di Luigi Civolani c510152025 pubblicati su "Provocazioni blog by altervista org → http://c510152025.altervista.org/ Contatti e-mail: [email protected]